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Ludovico Di Martino

Da piccolo giravo dei corti, se così possiamo chiamarli, con le mini DV di mio padre. Montavo direttamente con la videocamera, come si dice “in macchina”, ero…

Ludovico Di Martino - Photo Courtesy of Ludovico Di Martino
Ludovico Di Martino – Photo Courtesy of Ludovico Di Martino

Non è semplice, per chi scrive, introdurre questa intervista con Ludovico Di Martino, regista e sceneggiatore che ha già in tasca alcuni dei più importanti successi, a livello mondiale, di Netflix. La belva (2020) e I viaggiatori (2022), per citare due lungometraggi, e la terza stagione di Skam Italia (2019) sono solo alcuni dei titoli che arricchiscono il suo curriculum. Un curriculum che continua a crescere. Il punto è che la produzione artistica di Ludovico Di Martino è molto più matura e completa di quanto ci si potrebbe aspettare da un regista così giovane (classe 1992). È un regista che dà la sensazione di essere già maturato professionalmente, di gareggiare in una classe a parte, di muoversi (velocemente) su un binario parallelo ma separato rispetto ai suoi coetanei.

In questa intervista parliamo dei suoi primi passi come regista, dell’importanza (non è quella che pensate voi) di frequentare una scuola, di quello che vorrebbe cambiare nel mondo del cinema. E di cosa avrebbe fatto nella vita, se non fosse diventato regista.

Iniziamo parlando di ispirazione. Chi ti ha ispirato e magari continua ad ispirarti, al punto da spingerti ad intraprendere questa professione? Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa carriera?
Non avendo una risposta precisa, né potendo dichiarare un amore per il cinema che nasce quando ero piccolo, visto che l’ho scoperto tardi, dopo il liceo, alla fine mi ritrovo sempre a dare risposte diverse, cercando tra esse ancora quella giusta. La verità è che sono stati i miei genitori, che fanno entrambi i restauratori, a spingermi sin da bambino a scrivere, ad iscrivermi ai corsi di teatro, poi suonavo e ho studiato anche diversi strumenti musicali come il pianoforte e la batteria. Tutte queste cose hanno confluito in modo molto caotico ma spontaneo nella regia, per quanto in famiglia non avessi nessuno che lavorasse nel cinema, e quindi se c’è una risposta che sento certa e in cui risiede la fonte iniziale di questa mia scelta, è il non avere avuto freni o limiti imposti dalla mia famiglia. L’ispirazione come reazione ai grandi film e ai grandi registi è venuta dopo. Ad oggi chi mi ispira di più attraverso il suo percorso e i suoi film è senza dubbio Paul Thomas Anderson, che affronta ogni sua nuova pellicola come un film a sé, senza il bisogno di autocitarsi e senza giudizi rispetto alla sperimentazione, all’approfondimento unico, sembra come che non debba niente a nessuno, è uno dei pochi che per me fa film perché ne ha bisogno, e basta.

Come hai iniziato?
Da piccolo giravo dei corti, se così possiamo chiamarli, con le mini DV di mio padre. Montavo direttamente con la videocamera, come si dice “in macchina”, ero quindi costretto a girare in ordine cronologico e nel caso di una scena sbagliata dovevi riavvolgere il nastro e rigirarci sopra, immagina il casino. Poi a diciannove anni avevo una band e ad un certo punto dovevamo realizzare un videoclip, c’era un videomaker che però ci aveva chiesto un sacco di soldi che noi non avevamo. Era iniziata l’epoca delle reflex e il padre del chitarrista ne aveva una, era una Nikon, e allora decidemmo di farcelo da soli, sul terrazzo condominiale dei miei genitori, con un lenzuolo bianco appeso al muro per fare l’effetto del teatro di posa, ma in pieno giorno. Ancora oggi mi chiedo se fosse stupido o una genialata. Fu la prima volta che girai qualcosa sul serio, poi presi il materiale e lo montai imparando da Youtube come usare iMovie, un programma di editing davvero basilare ed intuitivo. Non scorderò mai la sensazione che ebbi la prima volta che ho rivisto il montato dall’inzio alla fine, era come un brivido di onnipotenza. Da lì non ho più smesso.

Pensi sia importante frequentare una scuola per intraprendere questa professione?
Si, ma più che per imparare le tecniche, che puoi apprendere anche dal divano di casa, sui libri e guardando tanti film, la scuola è fondamentale a conoscere altri professionisti che il mestiere già lo praticano, scoprire così nuovi approcci dati dall’esperienza sul campo, e soprattutto per conoscere i futuri professionisti, i tuoi compagni di corso, le persone con cui cimentarsi nelle prime, e fondamentali, esperienze lavorative. Io ho frequentato il Centro Sperimentale e lì ho conosciuto molte delle persone, amici e colleghi, con cui tutt’oggi lavoro per realizzare i miei film.

Quale è stata la tua prima, vera videocamera?
Era il 2013, avevo ventuno anni, ho venduto tutti i miei strumenti musicali per comprarmi una Canon 600D e un paio di ottiche fisse, mi ricordo un 35mm Samyang e un 50mm della Nikon. Ho girato e montato tantissimi video con quell’attrezzatura, come dicevo erano gli anni delle reflex, il top era la 5d Mark II ma noleggiarla costava al giorno quanto oggi ti costa prendere una Alexa mini, per dire. Anche perché se ci pensi oggi anche un iPhone 14 gira meglio di come girava quella Canon…

Quali sono lavori a cui sei più affezionato, quelli che meglio ti rappresentano, che hai potuto realizzare proprio come volevi tu?
Per un motivo o per un altro, ogni film ha una storia che mi ci lega in maniera profonda, ad oggi mi è davvero difficile farne una classifica, forse tra vent’anni sarà più semplice. Devo dire che ho anche avuto la fortuna di essere sempre libero nei miei lavori, e poi la verità è che il progetto a cui mi sento più legato è il film che ho in testa e che voglio fare nell’immediato futuro, più che uno dei film fatti nel passato, perché è il frutto più recente di chi sono io, di come mi sento, di cosa vedo e di cosa penso.

Hai in mente un “progetto impossibile” che però prima o poi vorresti provare a realizzare?
Ne ho in mente tanti, ma non mi piace la parola “impossibile”. Tutto prima o poi trova il modo di essere realizzato, magari non come ce lo avevi in testa tu, ma il fatto che per realizzare qualcosa, tu debba adattarla ad un sistema di regole che vuoi o non vuoi modificano l’idea di partenza, significa solo che inizialmente la matrice di quell’ispirazione era percepita da te nel modo sbagliato. È la differenza tra l’avere un’idea e avere un progetto. E avere un’idea è un processo che mi stressa a morte, finché essa non si dimostra capace di tramutarsi in qualcosa di fattibile e quindi in grado di vedere la luce.

Se tu potessi dare un consiglio ad un giovane Ludovico Di Martino che sta per iniziare, cosa gli diresti e quali errori gli consiglieresti di evitare?
Di avere più pazienza.

I sassolini nelle scarpe. Cosa non ti piace nell’ambiente in cui lavori, e cosa vorresti cambiare – se tu potessi farlo.
Mi piacerebbe che ci fosse una competizione più sana, sono cresciuto giocando a rugby ed ecco, mi piacerebbe che ci fosse un terzo tempo anche nel mondo del cinema, il che prevederebbe un tempo per lo scontro, cosa che evitiamo e quindi reprimiamo già tanto in partenza, invece dovremmo essere più sinceri, combatterci un po’, per poi ritrovarci in un altro tempo per il dibattito e dunque un tempo per bere e mangiare assieme, con le spalle lussate sì, ma nutrendo un grande rispetto per l’avversario, sia in caso di vittoria che in caso di sconfitta.

Cosa avresti fatto se tu non fossi diventato un regista?
Mi piace pensare che avrei fatto il musicista, ma probabilmente non ne sarei stato capace. La verità vera è che non avrei saputo fare nient’altro.

ADVERSUS

Ringraziamo Ludovico Di Martino
https://www.instagram.com/ludovico.dimartino/
https://www.ludovicodimartino.com/

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