Incontro Matteo Guarnaccia al bar della Triennale a Milano in un pomeriggio tipicamente pre-estivo. E non poteva esserci luogo più appropriato per la nostra intervista. Matteo Guarnaccia, intellettuale, scrittore e artista nel vero senso della parola, pittore e designer, uno dei più importanti esponenti della controcultura degli anni settanta, docente alla Nuova Accademia di Belle Arti (NABA) e grande viaggiatore. E non vado oltre con le qualifiche ma potrei. Parlare con Matteo è estremamente piacevole, gli aneddoti sulla sua vita si fondono in maniera quasi impercettibile con le sue riflessioni sull’arte e sulla vita, ti rendi conto di avere di fronte una persona che ha visto, e vissuto, tantissimo. Quello che noi leggiamo o vediamo in televisione lui lo ha vissuto. Parliamo della controcultura della fine degli anni ’60 e degli anni ’70, delle forme artistiche che si sono sviluppate in quegli anni, della musica, della pittura. E non hai mai l’impressione che te le faccia cadere dall’alto, non ti fa pesare la sua esperienza. Semplicemente ascolta, pensa, racconta e riflette mentre risponde alle tue domande che forse si è già sentito porre decine di volte.
Gira su internet una sua foto scattata alcuni anni addietro, dietro a lei su un muro campeggia la scritta “When I am 64” che si riferisce alla celebre canzone dei Beatles. Lei in questo momento ha esattamente 64 anni, se si guarda indietro ha qualche rimpianto?
No… come diceva Edith Piaf? “Non, je ne regrette rien…” Nella mia vita ho fatto delle scelte molto radicali, era giusto farle, con quella sana incoscienza da adolescente che riesce a mantenerti in quota, senza farti schiantare. E ho avuto la fortuna di farlo in un momento in cui c’era una rete di solidarietà molto ampia, nessuno era solo.
Ha nostalgia del passato?
Quando Lennon e McCartney hanno scritto quella famosa canzone, 64 anni erano un’età molto avanzata. A quei tempi si diceva… ‘Never trust people over thirties’ perché si riteneva che uno oltre i 30 anni fosse già in qualche modo qualcuno di cui non fidarsi: una persona normalizzata. Dunque 64 anni erano come il “1984” di Orwell, sembrava una data lontanissima… invece siamo andati ben oltre il 1984, e siamo qua. 64… quella foto era anche ironica. Quando ascoltavo quel brano dei Beatles avevo 14 anni, per cui quel numero era qualcosa di molto lontano nel futuro… è strano, vedevo intorno a me gente che aveva 30 anni ed era veramente già vecchia. A 30 anni avevi già una famiglia, un lavoro, tutti erano già incasellati.
Quando ha iniziato a vedere che le cose stavano cambiando per lei?
Qualcosa è cambiato verso i 50 anni, quando il mio sguardo sulle cose è diventato diverso. Potevo vedere tutto ciò che mi circondava non solo da vicino come un miope, ma anche da lontano. È una sensazione incredibile: ti accorgi che hai già percorso un lungo tratto di strada.
C’è anche gente che non si volta mai…
Infatti. Io ho fatto parte di un movimento che ha esplorato strade “nuove”, anche se molti altri le avevano già percorse ben prima di me. Eravamo adolescenti, pensavamo di essere unici, di aver fatto qualcosa di straordinario. Abbiamo fatto cose straordinarie, come rifiutare molte cose che sembravano inevitabili. Giovanissimo sono andato a vivere ad Amsterdam. Avevo sentito parlare dei “Provos”, ed ero molto curioso. Degli amici che erano stati in Olanda mi parlavano di quel luogo con entusiasmo contagioso. Milano allora, era una città industriale, piena di operai, grigia, con la nebbia. Amsterdam era molto meglio di come me l’ero immaginata: una città completamente in disarmo, una fortezza con le porte spalancate, dove sembrava che i custodi si fossero dileguati nel nulla. Era tutto possibile, non percepivi la pesantezza del controllo sociale. La cosa che più mi aveva stupito era il totale senso di responsabilità dei giovani olandesi che avevano creato una reale società alternativa. L’Amsterdam di oggi è molto diversa, in preda al turismo più irresponsabile e consumista, un destino che condivide con molte altre città.
Quindi in un certo senso ha nostalgia del passato…
Io non sono nostalgico, il passato non mi manca perché mi piace andare avanti, vedere cosa c’è oltre la prossima svolta. È come cercare di trattenere l’acqua che scorre. Come quando finisce un amore bellissimo… dentro di te conservi i momenti migliori.
Cosa c’era quaranta, cinquant’anni fa che oggi non ritrova più nella società attuale?
C’era più biodiversità a livello umano, questa è una cosa difficile da far capire oggi. Le persone erano molto diverse le une dalle altre, avevano forti personalità, non erano così formattate. In Italia per esempio bastava andare da Milano a Como e cambiava tutto, e sono solo 50 chilometri di distanza. Adesso è tutto uguale. Questo non mi piace. È come se ci fosse un solo tipo di pianta in giro, un solo tipo di animale, una sola stagione…
Tutto cambia. In peggio o in meglio?
Sarebbe troppo autoreferenziale dire ‘io ho vissuto il meglio’. Il mondo va avanti. Non sono così arrogante da pensare che “dopo di me il diluvio”, come diceva Re Sole. Il passato è bello, soprattutto se sai leggerlo. Io sono un artista che sente la necessità di trovare i collegamenti tra quello che faccio e quello che mi circonda. E questo si è trasformato nel piacere di scoprire e raccontare storie, un po’ archeologia un po’ sabotaggio.
Se si parla di Matteo Guarnaccia saltano alla mente subito due termini. La parola ‘artista’ e l’aggettivo ‘psichedelico’. È arrivata prima la parte psichedelica nella sua vita, o quella artistica?
È andata di pari passo, anche se toglierei subito l’ambiguità della questione droghe, nel senso che non c’entravano più di tanto. Quello che mi ha formato è stata l’atmosfera che mi circondava, era questa totale condivisione con gli altri. Ho creato la mia rivista “Insekten Sekte” una sorta di giornale nomade scritto e disegnato con lo stile psichedelico. Eravamo tanti Robinson Crusoe che si sono accorti di non essere soli su questa isola… Era una caccia al tesoro continua. La cultura indohimalayana, il sufismo, la poesia della beat generation, la pittura fiamminga, la nouvelle vague francese, i concerti in locali come il Paradiso di Amsterdam, il Living Theatre. Ogni persona che incontravi ti suggeriva un libro, un quadro, un brano musicale, una punto di vista diverso dal tuo da elaborare. Sono diventato artista in questo modo, le gallerie e i critici sono arrivati dopo. Oggi mi occupo anche di moda e costume e ripensandoci, il mio interesse è nato in Olanda dove c’era l’usanza di lasciare fuori di casa le cose vecchie, specialmente tappeti consumati. Chiunque poteva prenderli. Al Paradiso esisteva una stanza con delle macchine da cucire e tutto l’occorrente per inventarsi degli abiti o accessori. I tappeti diventavano giacche, borse e cappelli. Era lo street style prima che venisse coniato il termine.
E poi lei è tornato in Italia…
Prima sono passato dalla Germania, a Colonia. Poi mi sono più o meno fermato qui, sempre viaggiando anche perché ho lavorato con Alitalia dove collaboravo alla realizzazione di spettacoli per promuovere la cultura italiana nel mondo.
Come ha iniziato a scrivere?
Nell’87 a San Francisco, ho visto una mostra ad Haight-Ashbury, dedicata al ventennale della Summer of Love, dove quello che era esposto, disegni, poster, eccetera, mi ha spinto a far conoscere le ricadute di quella cultura in Europa. Non solo molti giovani e studenti mi contattavano per avere notizie su quella esperienza. Ho iniziato a scrivere un saggio che ha avuto un impatto inaspettato nel mondo editoriale. La mia attività “giornalistica” è uno spin off di questa ricerca. Due simpatici giornalisti di Vogue, a Milano, mi hanno cercato perché l’uscita del mio libro coincideva con la rinascita della sensibilità psichedelica anche nella moda. Appena iniziata l’intervista, i due con grande onestà mi hanno detto “noi non ne sappiamo niente, lì c’è la macchina da scrivere, andiamo a fare un break, scriva lei il pezzo per favore”. Mi hanno lasciato davanti alla macchina da scrivere, da solo, nella redazione di Vogue. E così è uscito il primo articolo con la mia firma proprio su Vogue.
E lì ha iniziato anche la sua attività come scrittore…
Da allora ho scritto una trentina di titoli, tra saggi e libri illustrati. Le mie passioni principali sono rimaste la storia delle subculture/controculture e lo sciamanesimo. Per quanto riguarda la prima, grazie all’opera ‘Ribelli con stile’, è iniziata la mia collaborazione con la Nuova Accademia di Belle Arti, NABA. E poi lo sciamanesimo, di cui percepisco la continuità all’interno dell’atto creativo artistico. Non mi interessa solo l’aspetto etnico, il pittoresco, ma proprio il fatto di poter superare le barriere della coscienza attraverso l’arte.
Quindi lei ritiene che i contenuti e i concetti caratteristici dello sciamanesimo vivono anche nella nostra cultura occidentale, ma nascosti e codificati all’interno di certe forme artistiche?
Assolutamente sì, specialmente nell’arte psichedelica e nell’ambito della performance. Sono state assorbite, rielaborate, adattate al contesto in cui noi viviamo. Picasso ne è forse l’esempio più calzante.
Un artista come Salvador Dalì rientra anche lui nell’elenco degli artisti ‘psichedelici’?
Salvador Dalì è stato geniale nel costruirsi un personaggio, molto attento all’estetica, alla provocazione programmata, senza mai trascendere dal copione di grande eccentrico, funzionale a un certo mercato dell’arte. Poteva andare a passeggio per New York con un formichiere e far fondere gli orologi come formaggi alla piastra, restando perfettamente dentro il sistema.
E Picasso invece?
Ritengo che Picasso fino alla fine sia stato un uomo di un’energia enorme. Uno sciamano con grandi occhi fiammeggianti, perforanti. Dotato di una superba conoscenza tecnica, quando aveva 13, 14 anni realizzava quadri ad olio incredibili come costruzione stilistica, uso del colore. Poteva accontentarsi e diventare un bravo pittore, ma è andato oltre, ha ‘asciugato’ tutto ed è arrivato al segno puro. È tornato bambino. Si capisce che anche il suo segno più elementare è il risultato di un’elaborazione. Ha continuato a creare, ad alimentare il suo fuoco interiore, sino alla morte.
Venendo ai tempi nostri, chi, oggi, porta avanti questo discorso dello sciamanesimo nell’arte occidentale?
Ora il discorso è molto più complicato. È difficile che emergano delle personalità, perché il mondo dell’arte è strutturato per compatimenti stagni. L’arte deve diventare prodotto prima che la tela si asciughi. Non c’è nulla di male, per carità, ma non sono cose che mi emozionano.
Parliamo di Matteo Guarnaccia pittore e dei suoi quadri, da dove viene l’ispirazione quando dipinge?
Alcune immagini emergono dal subconscio, altre dall’immaginario collettivo (amo Jung), altre dal momento del “qui e ora”. Non mi stanco mai di leggere, esplorare luoghi, incontrare persone, e da questo affaccendamento continuo assorbo come una spugna. I miei primi lavori, fatti a 14, 15 anni, tradiscono uno stile pre-colombiano, anche se all’epoca non avevo nessuna idea di cosa fosse non lo avevo mai visto. Anche se non ero mai stato in Messico, in questa vita almeno [ride ndr.].
Lei ha vissuto, ha studiato, ha sperimentato. Si sarà sicuramente chiesto cosa è questa esistenza…
Bella domanda. Mi sembra che l’essere umano viva gran parte del suo tempo con il pilota automatico innestato, da addormentati. Poi per fortuna, se non te ne accorgi da solo, è la vita che all’improvviso, ti costringe a metterti direttamente alla guida del tuo involucro. E in quel momento esplode, in tutta la sua esuberanza, il senso dell’esistenza. Esistono personalità carismatiche che per crescita personale hanno deciso di uscire dal sonno. Qualcosa che già affermavano i Sufi , e che poi ha ripreso Gurdjieff. Ci vuole molta autodisciplina, responsabilità oltre a un pizzico di follia, per evitare di riaddormentarsi. Per poter continuare il viaggio, con tutte le sorprese e le meraviglie che ci aspettano, bisogna coltivare la curiosità.. La mia visione della vita è ottimista perché ci sono momenti in cui capisci a fondo il senso delle parole William Blake, “vedere l’universo in un granello di sabbia”.
Lei è riuscito a vedere la meraviglia della vita?
Ho la fortuna di avere uno strumento come l’arte che mi permette di avvicinarmi a questo stato. Credo veramente che l’arte possegga, per chi sa coglierla, una chiave spirituale e ludica utile a questo fine.
Quindi l’arte non serve solo a chi la ammira, ma anche a chi la produce?
Certo, l’arte mi ha salvato più volte, come creatore e fruitore del lavoro di altri. Penso che avere a disposizione colori, carta e matita sia stato e continui ad essere fondamentale.
Lei ha i capelli lunghi perché è un artista o è un artista perché ha i capelli lunghi?
È un’antica ossessione: era uno dei segni di riconoscimento della mia generazione “ribelle”. Credo che i capelli siano delle antenne, hanno veramente lo scopo di mantenerti in collegamento con quello che c’è intorno, con gli alberi, con l’erba, con l’energia del vento, con i raggi del sole. Lo dicevano già i filosofi greci.
Le donne portano i capelli lunghi…
Le donne sono più intuitive, hanno molta più vicinanza con l’essenza della vita. Le donne si lamentano del fatto che non ci sono state abbastanza artiste nel corso della storia. In realtà non è così, perché la donna è già “naturalmente” un’artista. L’uomo inconsciamente fa l’artista per cercare di avvicinarsi a ciò che la donna già conosce e percepisce.
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